La zampina

La zampina.

Era il 26 aprile del 1613. A levante il sole non aveva ancora superato le cime delle alte querce. A ponente non c’era una nuvola. Era di nuovo azzurro il cielo in quella mattina di primavera! Il portoghese Miguel Vaaz ( mercante ebreo convertito, conte di Mola, del Territorio delle 4 miglia, ecc. ) era stato conquistato dalla forza estatica di quel luogo, ma non per questo aveva trascorso parte della notte sul terrazzo del suo castello e, al sorgere del sole, era ancora lì. I passi volutamente rumorosi del suo aiutante lo distolsero nel momento in cui  stava inseguendo, con gli occhi, le rondini che saettavano sui trulli, sulle capanne e sugli ovili.
– Buon mattino, mio padrone. –
– Buon mattino, Romolo. –

– Padrone, il dovere mi impone di dirvelo: stanotte mi sono svegliato quando avete aperto e chiuso la porta della vostra stanza con irruenza, con impeto, per poi salire di corsa la scala che porta quassù. E mi sono permesso di spiarvi: non sono riuscito a contare quante volte avete guardato giù dai quattro lati del castello … qualche volta avete guardato anche il campanile senza guglia di quella piccola chiesetta. Adesso che posso guardarvi bene, da vicino, in voi vedo qualcosa di strano … i vostri occhi azzurri sembrano mari tempestosi: in essi ci sono ansie, desideri, dubbi che tumultuano insieme. –

– E’ vero! … Stanotte mi ha svegliato un sogno, una profezia, una visione … non so cos’era … non so dare una definizione. –

– Di quale sogno, di quale visione parlate? –

– In sogno mi sono apparse tante persone che costruivano case vicino a questo castello … mi sono svegliato, sono salito di corsa quassù, e quel sogno si è mutato in visione, nel senso che, nel buio della notte, io vedevo veramente le persone che costruivano le case vicino a questo castello, all’apparire del sole tutto è svanito, mentre la voce del mio cuore mi ripeteva: “ Quelle case le farai costruire tu … quella visione è per te, realizzala, fonda un villaggio vicino a questo castello!”-

– Mio padrone, certamente non è la visione dell’imperatore Costantino che originò il più grande compromesso storico dell’umanità, ma è simile alla visione del mio grande omonimo che fondò, vicino al Tevere, un parvum pagum: un piccolo villaggio che chiamò Roma. –

– Romolo, tu lo sai bene, dopo l’acquisto della contea di Mola le mie risorse finanziarie sono diminuite, per cui ho poco denaro da destinare a questa impresa, e poi, ai napoletani ho promesso di restaurare una loro antica chiesa. –

– Padrone, il denaro per costruire le prime case lo possiamo  trovare, e sta qui, in questo vostro territorio: sta dove non ve lo immaginate, dove non lo vedete, perché voi avete sempre dato valore economico al grano: avete sempre acquistato e venduto grano, e col ricavato avete comprato anche la contea. –

– L’acquisto della contea di Mola mi è servito per ottenere il titolo di conte, e me lo hai consigliato tu, ma adesso spiegati meglio, e subito! –

Romolo si avvicinò al parapetto del terrazzo, dove non c’erano i merli, tese la mano verso Sud- Est, in direzione del colle Sannace, e disse:

– Vedete quelle querce, quei fragni … nella vostra proprietà ce ne sono a migliaia. Quegli alberi enormi, che sembrano delle cattedrali volute dalla natura, hanno un grande valore economico, non come legna da ardere, bensì come legno duro e impermeabile, adatto alla costruzione delle chiglie dei galeoni, delle imbarcazioni. Se li vendete agli amalfitani ricaverete una barca di soldi. Ad Amalfi, i tronchi degli alberi, come quelli, li fanno stagionare per anni nelle grotte marine prima di utilizzarli per la costruzione delle navi, a volte li rivendono agli inglesi, dopo il periodo di stagionatura, e se li fanno pagare come se fossero di oro. Un’altra cosa: per venire qui da Mola, dopo Casamassima, attraversiamo il Bosco della Sorba ( u vosk d’la solve )… lo chiamano della Sorba perché fra le querce e i fragni ci sono tantissimi sorbi. Il legno del sorbo lo acquistano i maestri di ascia ( i mèst d’asc ) locali per costruire uno strano verricello ( u uarkione o u varrekione ) che i contadini utilizzano per tirare le funi sui traini o sui carri agricoli che trasportano covoni di grano, fascine, paglia o altro. –

Il viso di Miguel Vaaz si illuminò di meraviglia, di stupore, come se in quel momento stesse contemplando la sorpresa di un regalo inaspettato, e incominciò a parlare piano piano, come avviene spesso in queste occasioni:

–  Io … io … – un sorriso traboccante di gioia rallentava il suo parlare. – Io non avrei … non avrei mai pensato una cosa del genere … e sono convinto … Sì! … sono convinto che, qui, senza i tuoi consigli, non avrei colto tutte le occasioni, tutte le opportunità che mi hanno consentito di fare quel salto di qualità che non avrei sicuramente fatto in Portogallo … lì, ero sospettato, e la persecuzione stava sempre in agguato. –

– Padrone, nessuno è profeta in patria, lo disse Cristo! –

– Che strana coincidenza, che incontro! – Continuò Miguel Vaaz. – Io abbandonavo il Portogallo per venire a Napoli. E tu, fuggiasco, giungevi nella stessa città dalla Serbia. Quando ti incontrai, ti considerai un pezzente perché indossavi stracci; avevi uno strano accento, ma il tuo parlare era elegante. Dal tuo eloquio capii subito che eri un nobile, uno studioso di lingue antiche e moderne, e accettai di ascoltare la tua triste storia. – Miguel Vaaz tossì un paio di volte, e poi riprese a parlare mentre Romolo pendeva dalle sue labbra. – Mi dicesti che i turchi t’avevano tolto tutto … che avevano anche sterminato la tua famiglia e ridotto in polvere il tuo castello. Adesso tu non puoi più tornare in Serbia, e io non tornerò più  in Portogallo, vivremo in queste regioni, per tutta la vita. –

– Sì, padrone, avete fatto bene a considerare, nel vostro futuro, anche me … il vostro desiderio di restare in questa meravigliosa terra è anche mio. Gli abitanti di queste terre sono i più pacifici d’Europa; sono rispettosi delle idee, delle convinzioni e delle religioni altrui, e noi, fra loro, stiamo bene, in pochi anni siamo cambiati completamente, senza accorgercene: le loro abitudini hanno sostituito le nostre … se ci pensate bene, anche il nostro modo di pensare è mutato, e pure i nostri nomi: il mio è diventato Romolo, il vostro Michele: li abbiamo tradotti nella loro lingua. Ma devo confessarvi  che la mia anima rimane sempre la stessa, ed è sempre nella mia terra, dove sono sepolti i miei genitori, mia moglie, i miei figli e tutti i parenti … non ho più nessuno lì … ma tutte le notti mi sveglio e penso sempre alla libertà della mia terra … ma chi lo dovrà fare?… lo faranno coloro che hanno avuto l’arduo coraggio di restare, a loro è affidato il compito di riscattare la Serbia. Io adesso sono un emigrante, e come tutti gli emigranti mi considero un disertore. L’emigrante è diverso da chi rimane e cerca, con tutte le sue forze, di liberare la propria terra, oppure cerca di migliorarla. –

Miguel Vaaz lo interruppe: –  Io feci tutto il possibile per restare nella mia terra natia: mi convertii, mi battezzai, ma tutto questo non bastò! … soprattutto ai miei amici-nemici … mi consideravano un marrano … cioè un convertito esteriormente. Io non mi sento un emigrante: la mia situazione è diversa dalla tua. –  Si ammutolì, inclinò il suo viso incupito verso il pavimento del terrazzo, pensò, portò la sua mano destra sulla fronte, poi sugli occhi, poi sul mento, la rimise sugli occhi, la tolse, risollevò la testa e rivolse lo sguardo verso Romolo, nei suoi occhi c’era qualcosa di nuovo: c’era un timido sorriso che, come un chiarore mattutino, voleva portare luce nelle tenebre dei suoi pensieri, dei suoi ricordi. Riprese a parlare, ma il tono della sua voce era cambiato:

–  Romolo, non tormentiamoci! … Basta con il passato! … – girò il viso verso levante, e poi tese la mano sinistra  nella stessa direzione. – Guarda questo sole di Puglia che ha cominciato da poco a percorrere la sua parabola quotidiana … ci vuole allegri: con il suo splendore ci sta invitando a cambiare discorso. A proposito dei nostri nomi … ti ho detto e ripetuto tante volte che tu non mi devi chiamare più padrone, mi devi chiamare col mio nome: Michele, e non devi usare più i pronomi: voi, lei … devi usare il tu, voglio sentirti pronunciare un bel tu! … Il nostro rapporto si fonda sull’amicizia, su una grande amicizia. L’amicizia è un dono che Dio ci manda per alleviare le pene del nostro dolore. –  si fermò con un sorriso negli occhi. E subito iniziò a parlare Romolo:

– Michele … –  non poté continuare a parlare perché Michele Vaaz lo interruppe:

– Ecco, Sì! … Michele! … Bravo Romolo! Così mi devi chiamare, sempre! –

– Michele, hai ragione … sì, facciamo che le cose di ieri non abbiano valore, almeno per oggi. Io parlerei volentieri di quella tua visione perché mi intriga molto, ma prima devo farti una domanda che riguarda il solito rito giornaliero che compiono tutti gli esseri viventi per la loro nutrizione, senza quel rito non possiamo vivere, e anche pensare, ragionare, scherzare … non voglio dilungarmi, ti pongo subito la domanda: – Michele, cosa vuoi a pranzo oggi? – Michele Vaaz, per un attimo, alzò gli occhi verso il cielo, poi gridò: –  Un ricordo! Romolo, un ricordo! – prima di parlare, Romolo, stette un po’ a guardarlo con gli occhi fuori dalle palpebre.

– Michele, io non conosco una sola persona al mondo che si nutre di ricordi per placare la fame! –

– Romolo, un ricordo lontano! … mi è tornato in mente! … adesso! … all’improvviso! … il ricordo di una salsiccia … già ho l’acquolina in bocca perché era una vera prelibatezza … la mangiavamo con il pane … Romolo, come te lo devo dire? … oggi desidero solo pane e salsiccia … quella che piaceva a mio padre. La prepareremo insieme, la so fare! Vieni, andiamo subito dal pastore. –
Intorno al castello c’erano venti trulli e molte capanne, ovili e cortili circondati da muri a secco. Su quei muri i pastori avevano messo moltissime fascine di ramaglie di querce per renderli più alti. 
Michele Vaaz e Romolo salutarono il pastore che li accolse festante nel suo umile trullo.
– Cosa posso fare per voi, signor conte? Sono a vostra disposizione! –
– Fra qualche ora devi portare, al castello, le  due cosce di una  pecora che non ha figliato, basilico o prezzemolo, e formaggio grattugiato – ordinò Michele Vaaz.
– Conte, non ho basilico e non ho prezzemolo. Posso portarvi un’erba profumata che noi chiamiamo SARAPUD, cresce in questi vostri boschi. –
– Va bene … ci servono anche alcune budella lavate e rovesciate. Ti aspettiamo al castello, fra tre ore! –
– Sarò puntuale, conte – rispose il pastore.
Erano le undici ( alla meridiana ) quando il pastore arrivò al castello.
– Bravo, sei stato puntuale … oggi devi pranzare con noi … però ci devi aiutare! – intimò sorridendo Michele Vaaz.
Romolo e il pastore disossarono le cosce di pecora. Poi posero la carne su un grosso tronco di fragno, e con i coltelli la tritarono. A questo punto intervenne Miguel Vaaz; prese un pezzo di pane, lo immerse  nell’acqua, lo strizzò fra le mani, e lo mise in un recipiente di creta; aggiunse la carne tritata, il formaggio , il sarapud e il sale. Impastò fino a stancarsi. Romolo e il pastore, con un imbuto e con un pezzo di legno inserirono l’impasto nelle budella.
Intervenne una seconda volta Michele Vaaz: spezzò le budella ripiene con le mani, e sul tavolo formò tante piccole spirali che infilò agli spiedi. Porse gli spiedi a Romolo dicendogli: – Tieni … ora tocca a te … metti la ZAMPINA al punto giusto! … non voglio mangiarla bruciata. –
Nel tardo pomeriggio il pastore tornò al trullo. Disse alla moglie che il conte lo aveva trattenuto a pranzo, e gli aveva fatto mangiare la ZAMPINA. A sera ai figli, che avevano riportato le pecore all’ovile, ripetette: – Il conte mi ha fatto mangiare la ZAMPINA … è buonissima … ho visto come si fa … la faremo anche noi –
La fecero. Era ottima. Dettero la ricetta a tutti gli abitanti delle capanne e dei trulli.
Il pastore aveva riferito male. Non aveva capito bene. Quella salsiccia infilata allo spiedo a spirali non si chiamava ZAMPINA, si chiamava comunque salsiccia. Sì, esattamente salsiccia.
Quando il conte disse a Romolo: – … METTI LA ZAMPINA AL PUNTO GIUSTO! … – si riferì al SOSTEGNO DELLO SPIEDO che si chiamava ZAMPINA.
La ZAMPINA per Michele Vaaz era chiaramente l’arnese che sosteneva lo spiedo ( … al PUNTO GIUSTO! ) sui carboni.
Quella salsiccia, per errore, è arrivata ai giorni nostri con il nome di quello strano arnese di ferro.
I pastori, nel corso degli anni, impararono a utilizzare il basilico in estate e in autunno, il prezzemolo in primavera e in inverno. Il sarapud ( timo selvatico ) continuarono a metterlo, nella ZAMPINA, soltanto alcuni estimatori delle tradizioni.

Michele Vaaz fondò il villaggio costruendo ottantasette case vicino al suo castello.
Dalle Americhe era stato portato in Europa il POMODORO; trascorsero tre secoli  prima che si affermasse come alimento. Quel piccolo villaggio situato intorno al castello diventò COMUNE e lo chiamarono San Michele. Durante la prima guerra mondiale, dicono nel 1916, nel mese di agosto, quando le pecore pascolavano nelle stoppie, e la carne era più saporosa, un’anziana donna di quel piccolo paese, aggiunse agli ingredienti della ZAMPINA la salsa di pomodoro, e fu subito successo.

Si ringrazia l’autore che ha permesso la pubblicazione del suo lavoro di ricerca.

Il poeta Stefano Mallardi è laureato in Scienze Politiche ed è nato il 26 giugno 1942 a Sammichele di Bari, paese profumato del Sud, abbracciato dai mandorli, dai ciliegi e dai miti ulivi. La sua poesia è come quella brezza primaverile che sorge improvvisa nell’anima, la riempie di emozioni e la fa palpitare come ulivo al vento.

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