Carmelo Bene, ai «feriti dell’orrenda strage»

di Trifone Gargano

Esattamente vent’anni fa (il 16 marzo 2002) moriva Carmelo Bene, geniale interprete del teatro italiano, nato a Campi Salentina (in provincia di Lecce) il 1937, attore e regista, ma anche scrittore e poeta, artista a tutto tondo. Personaggio controverso, meticoloso e cinico, fascinoso e attaccabrighe, amato, osannato e odiato. Pier Paolo Pasolini, nel 1967, per il suo film Edipo re, lo lanciò in modo definitivo anche nel cinema. A me, qui, non interessa tracciare un profilo (piuttosto difficile da realizzare) dell’artista (e dell’uomo) Carmelo Bene. Anche perché non ne avrei le competenze. A me, qui, interessa, invece, raccontare della lectura dantis che Carmelo Bene tenne il 31 luglio del 1981, a Bologna, dalla Torre degli Asinelli, davanti a un pubblico di oltre centomila persone, dedicandola, da «ferito a morte», non «ai morti», ma ai «feriti dell’orrenda strage», in occasione del primo anniversario della strage del 2 agosto 1980. Quella fu la prima di una serie di letture esemplari della Divina Commedia, che Carmelo Bene realizzò successivamente.

La lectura bolognese fu preceduta e accompagnata da molte polemiche, suscitate da alcuni settori della politica italiana di quegli anni, in particolare democristiani, che mal digerivano l’artista pugliese, la sua poetica, e le sue performance. Dell’evento bolognese, infatti, non esistono riprese Rai, proprio perché l’azienda di Stato, in polemica con la manifestazione, organizzata dal Comune di Bologna, non effettuò alcun servizio. Era stato l’allora sindaco della città, Renato Zangheri, a chiedere a Bene di ricordare le vittime della strage con una cerimonia, con un raduno, con un evento che richiamasse  giovani da tutta Europa, in forma di «ricordo laico» di quell’orrenda strage, suggerendo a Carmelo Bene una lectura dantis di alcuni canti dell’Inferno, fra cui, per esempio, il XXVII, il canto dei fraudolenti, e il canto XXIII, il canto degli ipocriti. Dell’evento sono disponibili poche riprese amatoriali, effettuate da un gruppo di studenti. La lectura dantis ebbe una grande eco, artistica, politica ed emotiva. Per vedere, fare click sul QR Code seguente:

Il video completo della lectura dantis di Bologna è su Youtube, al link:

https://www.youtube.com/watch?v=9qrooKohjH0&t=446s

Il video dura poco più di 37 minuti, a cura di Rino Maenza e Angela Tomasini, ed è intervallato con le immagini strazianti della stazione di Bologna, con le macerie, i feriti, i morti, e i soccorritori.

Carmelo Bene, ovviamente, scelse liberamente i canti da leggere, o gli spezzoni dei canti, perseguendo, in piena autonomia artistica, una sua idea di evento celebrativo. La polemica con la Rai riguardò anche questo aspetto, in quanto i funzionari Rai chiedevano di conoscere in anteprima il canovaccio dello spettacolo. Carmelo Bene, che non rivelò nulla in anteprima, ironizzò sulla stessa richiesta dei funzionari Rai, e, con sarcasmo, si chiese, pubblicamente, se i funzionari conoscessero Dante Alighieri e la Divina Commedia. Con voce solista, nel buio totale, dall’alto della Torre degli Asinelli, Carmelo Bene lesse, esponendo il suo corpo, dalla cintola in su, quasi come la figura infernale di Farinata degli Uberti (nel canto X dell’Inferno, il capo ghibellino che ferma Dante, per dialogare con lui), guardando il mondo (rio e malvagio) in «gran dispitto». La lectura iniziò con i versi della seconda parte del canto V dell’Inferno (il canto di Paolo e Francesca), con l’aere perso e il mondo tinto, cioè sporcato con il sangue (degli innocenti), e con il ricordo della Caina, prima zona del IX cerchio, dove sono puniti i traditori dei parenti, che attende chi spense alla vita i due innamorati. Seguì il canto XXXIII dell’Inferno, con l’episodio tragico del conte Ugolino. Subito dopo, Carmelo Bene lesse alcuni versi dal canto VI del Purgatorio, il canto dei negligenti, con l’anima del poeta Sordello da Goito, che, dialogando con Virgilio, riflette sulla condizione servile dell’Italia, dilaniata e insanguinata da lotte intestine e fratricide, perenne «ostello» di dolore. Di grande forza, in questa lettura, è la sottolineatura dell’anafora «Vieni», che la voce di Bene rese in modo martellante e straziante (se solo si pensa, mentre si ascolta, appunto, al dolore e al sangue italiano versato, ieri come oggi). Seguirono i versi del canto VIII del Purgatorio, con il celeberrimo incipit dell’ora che volge al disio, e con Dante che ammira e descrive l’arrivo degli angeli guardiani. L’VIII è il canto nel quale Dante incontrerà l’anima dell’amico Nino Visconti, il giudice Nino, caratterizzato dalla mestizia (e dal sentimento dell’amicizia). Dopo, nella lettura di Bene, fu il turno del canto XXIII del Paradiso. Il canto del trionfo della vergine Maria (Dante e Beatrice sono nel cielo delle Stelle fisse). Potente l’evocazione della «notte» che, con il suo buio, «le cose ci nasconde». Direi che questa scelta di canto, il XXIII del Paradiso, effettuata da Carmelo Bene, in quella circostanza, specie per il verso 3, che denuncia il buio della notte che tutto nasconde, pronunciato da Bene, è bene ricordarlo, dinanzi allo scempio e allo strazio di quella strage terroristica, rende perfettamente l’immagine che, successivamente, è stata utilizzata in sede giornalistica, per descrivere gli anni bui (tutti ancora da chiarire, in termini di responsabilità politiche) della così detta «Notte della Repubblica» italiana. La notte di cui scriveva Dante; la stessa notte che recitava Bene; la notte della Repubblica italiana degli anni di piombo. Un Paese che «il sole aspetta» (v. 8), tanto per citare sempre da quel canto del Paradiso. Un Paese, cioè, che, a distanza di oltre quarant’anni, aspetta ancora la verità (su quella strage e su tante altre stragi). L’acme emotivo giunge allorquando la concitata e inimitabile voce di Carmelo Bene recita il verso 63 del canto:

come chi trova suo cammin riciso

Il cammino reciso, il cammino interrotto, appunto, dalle bombe. La vita recisa e interrotta, di tutte le vittime di quell’orrenda strage.

Il canto seguente, nella lectura di Carmelo Bene, fu il XXVII del Paradiso, il canto del passaggio verso il Primo Mobile, con Dante che ha finito l’esame, in presenza di san Pietro, che condanna la corruzione della Chiesa (con l’allusione diretta al corrotto papa Bonifacio VIII: «Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio…», vv. 22-3), di san Giacomo e di san Giovanni. Com’è noto, qui, Beatrice pronuncia parole severe contro la cupidigia umana. La voce di Carmelo Bene si fa severissima, nella recitazione dei versi 40-66, sulla corruzione della Chiesa («lupi rapaci», v. 55), sulle lotte fra i cristiani, e sulla missione di Dante, in quanto testimone e scriba Dei, la missione intellettuale, non solo di Dante, ma di qualunque intellettuale, che è e che dev’essere sempre quella di denunciare i potenti, e le loro nefandezze. La performance fu chiusa con  la lettura dell’incipit del canto VII del Paradiso, vv. 1-15, il canto del dubbio di Dante sulla «giusta vendetta». La lettura di Bene s’impunta, non a caso, sul verso 15, che sottolinea l’uomo «ch’assonna». Ancora una volta, dunque, nella sapiente scelta antologica di Carmelo Bene, la sua denuncia, attraverso Dante, si concentra sul sonno, sul buio che caratterizza la nostra esistenza, e che noi dovremmo squarciare.

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