Quel che rimane del lavoro.

Un viaggio nella narrativa della New Economy –  a cura di Trifone Gargano

Dal secondo dopoguerra, e per tutti gli anni Ottanta del secolo scorso, il lavoro aveva trovato in scrittori come Bianciardi, Volponi, Parise, Silone, Mastronardi, Strati, Di Ciaula, e tanti altri, i propri narratori. E oggi? Al tempo del lavoro precario; al tempo del lavoro a progetto, del lavoro che non c’è, del lavoro nero e flessibile, della riforma (o contro-riforma) dell’articolo 18, della new economy, e della delocalizzazione globale, esiste più una generazione di giovani narratori, che racconti il nuovo lavoro (o il lavoro che non c’è)? Chi, oggi, racconta i sogni, la rabbia, i tic, le manie, le speranze, le delusioni, le frustrazioni dei lavoratori di terzo Millennio?

Il lavoro, sotto l’incalzare della globalizzazione e della de-localizzazione, ha cambiato radicalmente pelle, per farsi ogni giorno sempre più precario (anche se la Confindustria utilizza la parola «flessibile», lavoro flessibile è l’espressione eufemistica che nasconde la progressiva perdita delle garanzie costituzionali del lavoratore). All’inizio fu la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, poi giunse il Job act del governo presieduto da Matteo Renzi, nel 2014. In anni più recenti, dal marzo del 2020 a oggi, causa pandemia da Covid-19, il lavoro ha nuovamente cambiato pelle, in peggio, facendosi virtuale, a distanza, online. Forniamo, qui, un minimo elenco di testi e di autori (senza alcuna pretesa di esaustività). Una sintetica mappa degli autori che hanno provato, da prospettive differenti, a raccontare, con stili e linguaggi diversi, questa nuova condizione del lavoro precario (o flessibile). Cominciamo con alcuni autori pugliesi:

Alessandro Leogrande, con Uomini e caporali (2008), ha proposto un (drammatico) reportage sui nuovi «schiavi» delle campagne del Sud

Omar di Monopoli, con Ferro e fuoco (2008), ha narrato, con ritmi da thriller molto teso, di nuovi «schiavi», nella Puglia del pomodoro, inventando, da grandissimo narratore qual è, appunto, Omar di Monopoli, che ha trovato felicissima conferma in tanti altri romanzi successivi, un pastiche linguistico, tra dialetto e italiano, interessante e molto espressivo, capace di ribaltare il tradizionale cliché tra lingua nazionale e dialetto (senza cadere nel coloristico, nella macchietta dialettale)

Mario Desiati, con Ternitti (2011), adottando la forma tradizionale del romanzo, ha raccontato di lavoro che non c’è, e di lavoro che, se c’è, come nel caso di Taranto (e dell’ex ILVA), pone mille interrogativi sui temi della difesa e della tutela della salute pubblica

Sono come tu mi vuoi, libro collettivo pubblicato dagli Editori Laterza, sulla multiforme realtà dei così detti lavori atipici di oggi

Francesco Dezio, con Nicola Rubino è entrato in fabbrica (2004), ha saputo rilanciare il tema della «grande fabbrica», pur nel mutato contesto post-industriale del lavoro precarizzato (e globalizzato) odierno.

Michela Murgia, con Il mondo deve sapere (2010), ha denunciato, in toni grotteschi, la condizione lavorativa presso i call center, in perenne oscillazione tra precariato e sfruttamento

Andrea Bajani, con Cordiali saluti (2005), ha messo in scena le vicende di un Killer, che scrive lettere di licenziamento ben curate, pirotecniche e appassionate, da un punto di vista espressivo e linguistico (quasi fossero lettere d’amore); dello stesso Bajani, segnalo anche Mi spezzo ma non m’impiego (2006), una sorta di viaggio-guida nel mondo del lavoro flessibile

Giorgio Falco, Pausa caffè (2004): moltitudine di voci provenienti dall’universo magmatico del «lavoro-non-lavoro» (un «inferno» senza speranza), sperimentando linguaggi e codici espressivi inediti

Giuseppe Culicchia, con Tutti giù per terra (1994), ha messo in scena il «precario», tra insicurezze e manie

Edoardo Nesi, Storia della mia gente (2011), ha narrato (tra romanzo e saggio, o trattato scientifico) della fine dell’illusione del benessere in Italia.

Il lavoro, nelle forme del precariato (il più delle volte, senza tutela e senza sicurezza, nelle modalità dello sfruttamento di manodopera gratuita), è entrato perfino nella scuola italiana, sotto forma di «alternanza» scuola lavoro (oggi, definita con l’acronimo PCTO, cioè Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento), in virtù della così detta «Buona Scuola», o legge 107/2015, voluta dal governo Renzi. Il 18 gennaio 2022, in un’azienda di costruzioni meccaniche della provincia di Udine, presso la quale lo studente Lorenzo Pirelli, 18 anni, frequentante l’ultimo anno di corso del suo Istituto superiore, è morto per un incidente in fabbrica, schiacciato da una barra d’acciaio di 150 kg. Gravissimo episodio di una lunga serie di incidenti (sottovalutati), nel corso degli ultimi anni, che hanno visto come vittime studentesse e studenti, da sommare alle centinaia e centinaia di morti sul lavoro, registrati giornalmente. Gli studenti in stage, in percorsi PCTO, in alternanza, che dir si voglia, vengono visti (e trattati) dalla aziende come manodopera gratuita. Quasi a dire, tragicamente, che lo studente, negli ultimi anni del suo percorso di formazione, deve sperimentare, sulla propria pelle, l’esperienza del lavoro flessibile, del lavoro selvaggio, senza tutele, del lavoro a rischio, del lavoro precario, del lavoro sotto-pagato (o non pagato del tutto). Se invece provassimo a immaginare percorsi attivi di conoscenza e di commento critico dello Statuto dei lavoratori, e anche di quegli articoli della Costituzione italiana che regolano il lavoro e i lavoratori, della Legge 30/2003, e di tutte le sue successive modifiche e integrazioni, con l’avvenuta polverizzazione delle tipologie di contratto di lavoro, forse, faremmo un servizio civico altamente formativo per le nostre studentesse e per i nostri studenti, senza mandarli allo sbaraglio nelle aziende.

Come sembra lontanissima (anni e ani luce) l’Italia di oggi, da quella che emerge in questa poesia di Gianni Rodari (1920-1980) sui lavoratori e sul lavoro: I colori dei mestieri…

Io so i colori dei mestieri:
sono bianchi i panettieri,
s’alzano prima degli uccelli
e han farina nei capelli;
sono neri gli spazzacamini,
di sette colori son gli imbianchini;
gli operai dell’officina
hanno una bella tuta azzurrina,
hanno le mani sporche di grasso:
i fannulloni vanno a spasso,
non si sporcano un dito
ma il loro mestiere non è pulito.

I sentimenti dominanti, leggendo questa filastrocca di Rodari, oscillano tra nostalgia, per un mondo che non c’è più, e l’ingenuità dello sguardo del poeta, che, invece, dovremmo recuperare, in mondo, il nostro, sempre più caratterizzato dal cinismo e dalla solitudine. Perfino un cantastorie come Umberto Tozzi, nel lontano 1991, scriveva, nella canzone Gli altri siamo noi, la frase (profetica) «famiglie di operari licenziate da robot». Per chi volesse ascoltare la canzone, potrebbe fare click sul seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=zNHe-1p6FBY

 

Sembra archeologia industriale la paginetta che riporto qui di seguito, tratta da Tuta blu, di Tommaso Di Ciaula, edito per la prima volta nel 1978 da Feltrinelli, nel quale lo scrittore operaio raccontava le ire, i ricordi, e i sogni di un operaio del Sud d’Italia:

 

Oggi sono tornato in officina dopo una settimana di malattia. Febbre che saliva e che scendeva, catarro che usciva nero con il nero delle seppie. Non parliamo della gola, sembrava che avessi due pietre al posto delle tonsille. Il naso sempre chiuso. Potevo stare altri giorni in malattia, ma ho preferito tornare in fabbrica. Poi parlano di assenteismo, che l’operaio non ha coscienza. Al contrario, siamo coscienti e anche pazienti. In officina lavoriamo in ambienti che spaventerebbero l’ultimo degli animali. Mi risulta che mucche e galline vivono spesso in ambienti puliti, freschi d’estate e caldi d’inverno; anche la musica hanno. Noi non abbiamo un bel  niente. Durante l’estate ci hanno messo finalmente i “torrini” dei grossi ventilatori che aspirano l’aria. Per averli abbiamo dovuto aspettare circa dodici anni, poi non servono a granché, fanno soltanto un rumore ruuuuur ruuuuuur rooooor che sembrano degli aeroplani.

Stasera è entrato in fabbrica il capo delle pubbliche relazioni, quello che porta a spasso tra i torni i turisti: inglesi, francesi, slavi, turchi, giapponesi, marocchini… Tutti qua dentro li porta. Questi di stasera sembravano tedeschi, guardavano tutto il paesaggio, uno si è fermato vicino al mio tornietto.

Mi piace chiudere la favola moderna di Agapito Malteni il ferroviere, di Rino Gaetano, del 1974, inserita nel suo primo album, Ingresso libero, canzone-ballata liberamente ispirata a La locomotiva di Francesco Guccini, che era del 1972. Agapito, infatti, come il macchinista della locomotiva di Guccini, per protesta, decide di dirottare il suo locomotore. Per ascoltare, fare click sul link seguente: https://www.youtube.com/watch?v=zy4M6su9oNY

In un gioco di specchi e di rimandi, con contadini che si fanno operai, che abbandonano i campi e la loro miserevole vita nei paesini assolati del Sud, per mettersi in treno e per tentare la fortuna nelle fredde città del Nord d’Italia, sistemandosi in anonimi quartieri, scoprendo di vivere destini ugualmente miserevoli,  suggerisco anche l’ascolto di una canzone di Pierdavide Carone, Auè, del 2010. Per ascoltare, fare click sul link seguente: https://www.youtube.com/watch?v=IlEPfxmd2BA

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